Uno sciopero importante che ci carica di responsabilità
La grande partecipazione alla manifestazione nazionale di Roma, l’adesione diffusa in migliaia di posti di lavoro allo sciopero generale promosso assieme allo Slai Cobas, all’Unicobas e allo Snater ci impongono una attenta riflessione sulla situazione ed un cambio di passo. Lo sciopero dell’11 marzo si è tenuto, ed è riuscito, nonostante tutto dicesse che le condizioni per effettuarlo erano difficili se non impossibili, nonostante sia stato convocato senza la condivisione di tutto il sindacalismo di base che questa volta ha scelto strade diverse e per certi versi incomprensibili, nonostante la gran parte del “movimento” fosse tutto proteso verso lo sciopero del 6 maggio indetto dalla Cgil, nonostante per la gran parte della stampa nazionale e locale e delle emittenti radio televisive al più si rappresentasse come un problema di traffico.
Alla base del successo dello sciopero e della manifestazione non può evidentemente esserci stata solo la solidità organizzativa e la ampia diffusione territoriale e categoriale della USB, spina dorsale di questa mobilitazione, cosa comunque assolutamente rilevante e senza la quale non ci sarebbe stata una simile riuscita, ma c’è stata soprattutto l’esigenza reale e concreta di unire le lotte che ciascuno quotidianamente mette in campo nel proprio specifico per provare a incidere davvero nella realtà e nelle scelte economiche e politiche che ci riguardano. E così centinaia di maestre d’asilo e delle materne sono arrivate da tutta Italia contro la privatizzazione e la precarietà, così i lavoratori della Fiat a dire un altro sonoro no a Marchionne e ai suoi editti imperiali, i lavoratori pubblici “incazzati”, i lavoratori dei trasporti, a spiegare il perché le privatizzazioni e i tagli fanno male al diritto alla mobilità dei cittadini molto più degli scioperi che si fanno per difendere il trasporto pubblico sia locale che aeroportuale che ferroviario e marittimo. E insieme a loro migranti, precari, studenti, disoccupati, senza casa, senza reddito e soprattutto senza diritti. Una disponibilità a mischiarsi e a pensarsi meticci, non solo da un punto di vista etnico ma anche di esperienze e di lotte, che non era scontata e che invece si è realizzata e ha fatto la forza della manifestazione.
Ora è evidente che l’11 marzo non comincia e non finisce lì. C’è, ed è qui la grande responsabilità che dobbiamo assumerci, una grande attesa sul che fare dopo, che relazioni tessere, che lotte intraprendere, che conti presentare al governo, ai padroni, alle controparti. La riuscita dell’11 marzo ci mette in condizione di proseguire con ancora più forza e convinzione il percorso intrapreso con la costruzione dell’USB, avendo fin qui riscontrato la fondatezza dell’opzione unitaria che abbiamo messo in campo. Dobbiamo continuare a credere nella necessità dell’unità del sindacalismo indipendente e conflittuale – che forse la dicitura “di base” comincia a starci un po’ stretta - e costringere davvero tutti a spiegare, a noi ma soprattutto ai lavoratori, cosa ostacola il mettersi in gioco per costruire uno strumento forte, adeguato, utile ai lavoratori ai precari, ai disoccupati, ai ceti popolari. Dobbiamo, senza autoreferenzialità e senza sentirci autosufficienti, cominciare a pensarci come l’alternativa di massa possibile, confederale e quindi generale, indipendente e conflittuale, ponendo con forza i nostri obbiettivi e praticando con passione e determinazione quanto necessario per realizzarli. Nessuna delle confederazioni storiche può oggi assumersi un simile compito, il loro DNA non glielo permette, e nessuno ha il diritto di sfiancare il movimento che si è espresso in questi mesi nello sterile inseguimento di una prospettiva che non c’è.